Da un articolo di Rocco Moliterni pubblicato su La Stampa il 10 agosto 2011.
Era il 1970 e con un gruppo di amici fotoamatori andammo in un hotel sul Gargano, in Puglia, che si chiamava e penso si chiami ancora Baia delle zagare. È su un piccolo sperone in alto rispetto al mare, dove ci arrivi con un ascensore. Decidemmo di fare delle foto. C’è chi fu attratto dalla gente che faceva il bagno e chi dall’acqua, a me colpì quell’ombra che lo sperone incideva sul bianco della spiaggia»: così Franco Fontana ricorda come nacque Baia delle Zagare, una delle sue immagini più conosciute. «Allora non ero ancora un professionista, di lavoro vendevo mobili per interni. Ma avevo la passione, mi ero anche pagato coi miei soldi un libro di fotografia su Modena, che adesso è una rarità per collezionisti».
Fontana è affezionato in modo particolare a quell’immagine: «Grazie a lei – ricorda – sono diventato famoso in tutto il mondo. Ad apprezzarne la “filosofia” furono i francesi. Nel 1978 – ormai avevo deciso di scommettere su me stesso, avevo mollato i mobili e mi ero messo a fotografare a tempo pieno – feci una mostra a Parigi, dove c’era anche Baia delle Zagare. Mi chiamarono dal ministero della Cultura per dirmi che secondo loro quell’immagine esprimeva perfettamente lo spirito del loro Paese e che la volevano usare in un manifesto per la diffusione del “pensiero francese”. Ne fui felice e poi ho scoperto che quel manifesto è arrivato in tutte le ambasciate e nei più sperduti centri culturali in Asia come in Africa». Ma c’è un’altra ragione per cui Baia delle Zagare è importante per il suo autore: «Rappresenta il mio modo di intendere la fotografia. Io credo infatti che questa non debba documentare la realtà, ma interpretarla. La realtà ce l’abbiamo tutti intorno, ma è chi fa la foto che decide cosa vuole esprimere. La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo»
Vedendola oggi si può dire che in quella immagine c’è già lo «stile» Fontana, quell’uso, come dice lui stesso, «materico» del colore e quel confine labile tra il realismo e l’astrazione, che l’avrebbe accompagnato in tutta la carriera, dai paesaggi Anni 70 ai nudi («A differenza di quelli di Araki o Serrano i miei sono da museo e non da edicola», rivendica polemicamente) degli Anni 80 agli asfalti di oggi. «Ma l’astrazione in fotografia è diversa da quella in pittura, anche se riprendi una casa fai qualcosa di astratto, perché hai deciso di isolare quell’immagine e non un’altra, l’astrazione è nella testa di chi scatta».
Nel 1970 la fotografia, o meglio la fotografia d’autore, era quasi esclusivamente in bianco e nero. «Il colore – afferma – era considerato dai fotografi “gastronomia”, in realtà maneggiare il colore non è facile. Si crede che il bianco e nero sia più creativo, ma non è così. La sfida è far diventare il colore, che è già nelle cose o nei paesaggi, da oggetto a soggetto. E poi se vuoi sono ottimista, quindi vedo il mondo a colori. Ma mi piace molto quello che dice Italo Zannier: Fontana usa il colore come se il bianco e nero non fosse mai esistito».
Baia delle Zagare gli stava per aprire anche la strada dell’America. «Ce l’avevo quando andai a New York nel 1979. Con i miei portfolio e un pizzico di incoscienza andai a bussare alla porta di Leo Castelli, il grande gallerista. C’era una coda lunghissima di artisti che volevano mostrare i loro lavori. Presero i miei portfolio e dopo una mezz’ora la moglie di Castelli mi chiamò, aveva su una scrivania le mie immagini sparpagliate e mi disse che erano molto interessati ai miei lavori. Dovevo però firmare in esclusiva per loro e aspettare due anni, perché avevano già mostre bloccate per tutto quel tempo. Io ero impaziente e dissi di no. Oggi me ne pento e non poco». Ma l’America sarebbe comunque entrata nelle sue immagini, forse anche perché, come direbbe Guccini, esiste un legame «tra la via Emilia e il West». «Negli anni successivi l’ho girata in lungo e in largo. E anche in anni recenti ci sono tornato con amici come Valerio Massimo Manfredi per fare un libro sulla Route 66». Dei suoi primi viaggi in America rimane una serie famosa che diede vita anche a varie mostre: «La luce delle domeniche americane». «Allora avevo iniziato a fotografare non solo paesaggi e case, ma anche persone». A vedere quelle sue immagini, con i colori scolpiti, il tempo sospeso e la gente sui marciapiedi in attesa dei bus, si direbbe anticipatore di molta dell’odierna street photography.
«Penso – prosegue – che non devi mai fermarti, mai fare sempre le stesse cose. Abbiamo un biglietto di sola andata, è inutile sprecarlo, ripetendo ciò che hai già fatto». Con questo spirito si capisce come Fontana sia uno che, a differenza di altri fotografi, non rimpiange l’«età della pellicola». «Il digitale – dice – è stata una rivoluzione che ti offre possibilità impensate fino a poco tempo fa. Prima di tutto non ti rompi più la schiena portandoti macchine e attrezzature pesantissime. Puoi scattare tutto quello che vuoi e scegliere solo ciò che ti piace, con il numero di pixel cui siamo giunti adesso non hai alcun problema di definizione. Poi mi sembra che riesci a scolpire meglio la luce. E infine l’idea che puoi “ritoccare”, se non sei soddisfatto, è un altro passo avanti». Quale consiglio darebbe a un ragazzo che vuole seguire le sue orme? «Organizzo molti work-shop e ai giovani dico che prima di tutto devono guardare dentro se stessi e capire chi sono. I manicomi sono pieni di gente che si crede Napoleone, ma con la fotografia è inutile che cerchi, se non lo sei, di copiare Cartier-Bresson. Devi essere te stesso, se lo capisci e hai delle cose da dire, il resto viene da sé». E per questo smitizza anche il feticcio della macchina: «Baia delle Zagare – conclude – la feci con una Pentax, poi sono passato alle Canon e ho sempre usato quelle. Ma non sopporto chi ti chiede mille particolari tecnici, pensando siano fondamentali: la macchina fotografica è come la penna stilografica per uno scrittore, solo uno strumento. Quello che conta è quello che sai scrivere».
Franco Fontana è nato a Modena nel 1933. Inizia a fotografare nel 1961 frequentando circoli amatoriali e passa al professionismo negli Anni 70. È uno dei grandi maestri della fotografia a colori, si è cimentato tanto con il paesaggio quanto con il nudo. Gli sono stati dedicati oltre 40 libri, pubblicati da editori di tutto il mondo (il più recente si chiama Anima e raccoglie immagini dagli Anni 70 a oggi). Ha esposto in musei pubblici e gallerie private (quasi 400 le sue personali).