Domenico Maria Cimaglia è stato ricordato da Vito Masellis nel Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani (Roma, vol. 25, 1981). Nasceva a Foggia nel 1737, l’anno in cui l’intera famiglia vi si trasferiva. Domenico studiava economia e diritto a Napoli, dove veniva introdotto dal fratello Natale Maria nei circoli culturali illuministi, formandosi nell’ambiente dei riformatori economici del tempo.
Nel 1766 succedeva al fratello Natale Maria Cimaglia nella carica di avvocato dei poveri presso il tribunale della Regia Dogana delle pecore di Foggia e iniziava a svolgere la professione a Foggia. L’avvocato dei poveri della Regia dogana aveva l’importante compito di difendere i locatari più piccoli dei pascoli del Tavoliere dagli abusi e dai soprusi ai quali continuamente soggiacevano, soccombendo il più delle volte; come tale Domenico diventava fine conoscitore e estimatore delle problematiche pastorali e agricole connesse all’antiquato regime fiscale legato all’istituto della Regia Dogana.
Frequentando l’ambiente riformistico-intellettuale, i cui illustri personaggi erano Giuseppe Palmieri, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, Melchiorre Delfico, Mario Pagano, Domenico e Francescantonio Grimaldi e, noti per le drammatiche inchieste tratte dai loro viaggi in Puglia, Giuseppe Maria Galanti e Francesco Longano, Domenico Cimaglia giungeva alla conclusione che le carenze nello svolgimento delle attività agricole nel “Tavoliere di Puglia” e l’uso non appropriato economicamente della pratica pastorale andavano affrontate in maniera decisa e radicale.
Pertanto esponeva nel 1783 un chiaro progetto di riforma nel testo Ragionamento sull’economia che la R. Dogana di Foggia usa co’ possessori armentari e con gli agricoltori che profittano de’ di lei campi e su di ciò che disporre si potrebbe pel maggior profitto della Nazione, e pel miglior comodo del Regio Erario, proponendo l’abolizione dell’istituto della regia Dogana di Foggia e la “censuazione” dei demani.
Al riguardo Vito Masellis scriveva: «La proposta censuazione ricevè obiezioni, ma infine fu pienamente accolta dal governo. Una ‘prammatica’ del 1792 decretava la spartizione dei demani in piccole proprietà, includendo in quel beneficio anche i braccianti (M.D. Merino, Memoria della divisione delle terre fiscali di Puglia, Napoli 1794, p. 87). Il lungimirante progetto di riforma del C. può ritenersi insieme con altri alla base della legge di censuazione del Tavoliere (maggio 1806) per cui, auspice Giuseppe Bonaparte, quelle terre risorgeranno economicamente dopo secolare abbandono» (op. cit.).
Non sarà solo Masellis ad assegnare un ruolo determinante nell’abolizione del sistema doganale di Foggia a Cimaglia. Infatti lo storico sammarchese Tommaso Nardella, in una nota (Giuseppe Poerio primo intendente di Capitanata e del Contado del Molise, Archivio Storico Pugliese, Bari, a. LIV, 2001, pp. 109-124), afferma che Cimaglia «sostenne l’urgenza di censuare le terre del Tavoliere che gran vantaggio economico avrebbero arrecato ad agricoltori ed allevatori trasformandoli da affittuari in proprietari» e, soprattutto, ancora più chiaramente e incisivamente di Masellis, parla di «un lungimirante progetto che poi avrebbero realizzato i Napoleonidi», ponendo su un piano superiore le tesi e le proposte di Domenico Cimaglia (op. cit. p. 113).
L’influenza politica, sociale, culturale di Domenico Maria Cimaglia si può cogliere appieno ne Il Giornale Patrio Villani, curato da Pasquale Di Cicco (Foggia 1985); infatti, vi si legge che Giuseppe, dopo aver ottenuto il 30 marzo 1806 dal fratello Napoleone la nomina a re delle Due Sicilie, si reca a Foggia e il giorno 8 maggio trova ad accoglierlo alle porte della città Cimaglia: «Si son fatte avanti le carrozze e per mezzo di don Domenico Cimaglia han fatto prestargli i dovuti omaggi. S.M. anche ha parlato loro e dopo un evviva di tutti ha ripreso il cammino…».
Le leggi eversive del 1806 decretavano, congiuntamente, la fine del Medioevo e del mondo feudale. Una nuova classe, quella borghese, si sarebbe fatta avanti, acquisendo i vizi e consolidando nel tempo i privilegi che avevano combattuto nel passato. I borghesi, che avevano sopportato la prepotenza baronale, da qui in poi avrebbero cominciato a non sopportare l’ “insolenza” di contadini e braccianti reclamanti diritti e un miglior tenore di vita.
Ma, come spesso accade, «fatta la legge, trovato l’inganno». Potevano i grandi locatari abruzzesi, i nobili baroni di antica e consolidata tradizione feudale, sottostare tacitamente alla soppressione di privilegi e vizi secolari?
«Fatta la legge, iniziò il gattopardesco profitto d’occasione per il conseguente conflitto tra censuazione e usurpazione, partizione e quotizzazione da parte di chi […] teneva le leve del potere, degli ex-feudatari, del nobilame, della grossa borghesia e dei soliti non pochi avventurieri. Proteste, polemiche e relativo contenzioso insorsero subito fin dal tempo murattiano. Più agevole fu il giuoco dei profittatori col ritorno dei Borboni. Ma anche dopo, con l’Italia unita, l’ingordigia dei profittatori non disarmò, anzi ebbe altra preda con l’esproprio dei beni degli ordini religiosi (Soccio Pasquale, I Cimaglia nel Settecento – I due volti del Gargano (erbe e uomini: realtà e simboli) in I Cimaglia del 700, Foggia 1991, p. 24).
Nel 1831, con Casimiro Perifano, Domenico Maria Cimaglia, celebre in vita, risulta ancora ben presente nella memoria storica della città di Foggia, grazie ai suoi meriti indiscussi: «Allorché Natale Maria, volle conferirsi in Napoli, e abbandonò l’onorevole destinazione di Avvocato dei poveri presso la nostra Regia Dogana, di ordine Sovrano venne sostituito suo fratello Domenico. Il foro echeggiava dalla eloquenza di questo secondo, che dopo molti anni seppe meritare gli onori di Uditore presso della indicata Regia Dogana. Abolito questo Collegio di estesa giurisdizione, senza richiesta, Domenico Cimaglia nel 1808 fu nominato Presidente della Gran Corte Criminale in Trani dove morì nel 1809. Destro e arguto Giureconsulto profondo, e freddo nella pugna del foro, sapeva resistere a fronte di Francesco Saverio Massari, che pennelleggiava le aringhe con tratti di vivissimi pregii poetici. Restano delle opere manoscritte sopra la Feudalità, e delle allegazioni della pubblica» (Cenni storici su la origine della città di Foggia…,1831, p. 126).