PESCHICI (Fg) – Con l’intronizzazione e la novena di Sant’Elia profeta Peschici, a partire da oggi 11 luglio, inizia a preparare la sua festa religiosa più coinvolgente, che si svolgerà nella classica tre giorni del 19 (vigilia), 20 (festa con processione) e 21 luglio.
L’origine del culto di Sant’Elia a Peschici si fa risalire al 970 d.C., quando una colonia slava di Schiavoni si insediò sul territorio dopo che il duce Sueripolo, per ordine dell’imperatore Ottone I, riuscì a scacciare i Saraceni dal Gargano. Pare che insieme agli slavi, i cittadini superstiti di Pesclizia (Peschici) si stabilissero in un casale nella zona cosiddetta “Canalicchio”, sotto la Rupe di Peschici.
In un opuscolo, curato nel 1915 dall’arciprete Antonio Carnevale e fatto ristampare (con l’approvazione ecclesiastica di F. Emanuele Bastardi) il 25 luglio 1968 dall’arciprete di Peschici don Fabrizio Losito, si accenna ad una suggestiva leggenda. Un nugolo immenso di cavallette oscurò ad un tratto il sole, distruggendo orti, uliveti, vigneti, campi; persino gli stessi cittadini non potevano uscire fuori di casa. Il clero ed i peschiciani, riunitisi in chiesa perché presi dallo spavento per il minaccioso avvenimento,decisero di indire una processione per implorare la protezione di Sant’Elia, per liberare il paese da questa calamità. Si rispolverò l’antica statua lignea del Santo, abbandonata nella cappella della Madonna delle Grazie, e tutti insieme si avviarono in processione verso il Castello, pregando e piangendo.
Era il mese di luglio e il caldo infuocato del libeccio bruciava il viso e non consentiva l’inoltrarsi della processione; i partecipanti decisero di ritirarsi a pregare in chiesa. Al mattino, sulla spiaggia giaceva «uno strato nero alto circa due palmi di cavallette e i dotti del paese, nel controllarle, scoprirono che, sulle ali erano incise le iniziali ‹I.D.› che interpretarono come ‹IRA DEI› (castigo di Dio). Il Signore aveva voluto punire un popolo avverso alla Chiesa e pertanto, da quel momento – si legge nell’opuscolo – alla fede si aggiunse una venerazione profonda per Sant’Elia: divenne unanime il desiderio che il Profeta diventasse patrono e protettore dl Peschici.
L’invasione delle cavallette fu una delle piaghe più terribili dell’agricoltura meridionale, un vecchio spauracchio dei contadini.Il miracolo di Elia fa parte di quella storia pre-borghese della terra, quando il contadino lottava per le sue esigenze vitali ed era incapace di abbandonare i propri campi. In economie depresse, sempre al limite della sussistenza e prive di ogni meccanismo di incentivazione, il nesso carestia-miseria-epidemia consentiva una sola libertà, dappertutto analoga: quella del miracolo, che rompeva, almeno per un giorno, il clima della condanna. Elia opera il miracolo, incidendo sotto le loro ali il segno della potenza di Jahvé. Siamo sul terreno della religione vissuta, che appartiene alla storia quotidiana del popolo e affannosa dei campi, della penuria, della fame, delle epidemie.
Ancora oggi è consuetudine, la mattina dell’11 luglio, data di inizio della novena che termina il 19 a cui segue il 20 la solenne processione, porre la statua di Sant’Elia su un trono riccamente addobbato.Tutti i peschiciani si avvicendano ad onorare il santo e, come una volta, strofinano un fazzoletto che serve a tergere la fronte, il viso e il collo al parenti malati (ma anche ai sani) per auspicarne la guarigione o la preservazione dai mali grazie all’intercessione di Sant’Elia. Durante la processione, si soleva sistemare i malati davanti alla porta di casa per ricevere la benedizione del santo e sperare nella grazia. Se qualche bambino scampava alla malattia, si confezionavano su misura abiti, tipo saio di frate, dai colori giallo e marrone, riproducenti l’abbigliamento del santo, o si cucivano i cosiddetti “abitini” (sacchettini di stoffa contenenti immaginette sacre raffiguranti Sant’Elia) all’interno delle fasciature avvolgenti il corpo dei neonati.
Per ringraziare il santo era usanza donare oggetti di valore. In un documento, datato 12 maggio 1920, il vicario curato Giovanni Attilio Ronghi sottoscrive per il sindaco Sante della Torre una nota che comprende gli oggetti d’oro e d’argento in dotazione alla statua di Sant’Elia. Essi comprendono: 82 anelli, 76 paia di orecchini, 44 tra lacci e collane, 61 oggetti vari, per un totale di 263 doni.
Negli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento, la festa di Sant’Elia veniva organizzata e preparata da un anno all’altro e alle spese partecipavano tutti i peschiciani. Scrive Saverio La Sorsa: «A Peschici, durante l’anno, chiunque fa il pane, lascia volta per volta al forno un pezzo di pasta e questi pezzi vengono giorno per giorno uniti insieme, benché di farina eterogenea e ridotti in panetti, i quali sono venduti ad un prezzo più basso del normale; il ricavato è destinato alla festa di sant’Elia, che è il patrono del paese. Per la stessa festa, ognuno che trebbia il grano o frange le olive, o pigia l’uva, preleva dalla sua produzione un po’di grano, di olio o di mosto e l’offre al santo».
Negli anni ‘30 del Novecento, il Comune distribuiva alle famiglie più povere dei buoni per ricevere gratuitamente un pane da 2 Kg. In una nota spese, recuperata nell’archivio comunale e datata 20 luglio 1924, figuravano tra le spese: musica e regalie al maestro (lire 5185.00); albergo 5 solisti e vitto ed albergo maestro (lire 281,50); fuochi pirotecnici lire 2.100,50; fitto illuminazione lire 600,00; energia elettrica lire 860,00; facchini per illuminazione e fuochi; lire 107,00. Il totale delle uscite ammontava a lire 11.109,40. Tra le voci relative alle entrate, figuravano: ricavato pane a tutto il 31 agosto compreso lire 161,90; una sottoscrizione di lire 3.505,50; posteggio al mercato con aumento di pesce e formaggio lire 595,10; aumento vino e carne lire 1541,00; posteggio forestieri lire 485,00; offerta durante la processione lire 165,20; ricavato dell’asta per la portata dei Santi lire 29,50; ricavato di circa 27 tomoli di grano 8 lire 1.059,65. Il totale delle entrate ammontava a lire 10.886,70; il resto di lire. 222,70, in dare, lo si recuperava con altre tassazioni entro il mese di settembre. Per la festa di Sant’Elia, tutto il popolo concorreva alle spese e seppure nella miseria, ogni peschiciano garantiva al meglio il festeggiamento del santo patrono.
Ancora oggi, con il rientro degli emigranti dall’estero, convenuti apposta per l’occasione, si ripetono di anno in anno dei riti che con semplice, ma efficace teatralità, esprimono i destini di questa terra garganica e la sua speranza di prosperità, nel solco di una tradizione secolare. Elementi culturali ed etnografici, non sempre avvertibili, concorrono a trasformare queste giornate in eventi religiosi dominati dalla coralità: Peschici, perduta nel mare dell’esistenza senza risposta, acquista soprattutto nel culto antico del santo profeta Elia che libera i suoi poveri, pochissimi abitanti, dalle cavallette, dalla siccità, dalle malattie e dalle incertezze della vita, la speranza di salvezza o quanto meno la speranza consolatrice di un futuro migliore. I modelli della società di massa e consumistici non hanno ancora scalfito questa realtà, consolidata da secoli: un modo di fare e di essere collegato, nella sua dimensione più profonda, alla misteriosa ricerca di sé, della propria identità, del minimo di garanzia vitale.
La religiosità popolare, come ci ha ricordato il nostro concittadino monsignor Domenico D’Ambrosio, è un mondo misterioso ed affascinante, al quale occorre avvicinarsi con atteggiamento cauto ed interlocutorio, in punta di piedi; vi si accede più facilmente formulando domande, anziché dando risposte. Va compresa nelle sue intenzioni, nel suo linguaggio, nella sua genesi e nelle sue mutazioni storiche. Molti sono i suoi valori, e occorre saper cogliere le sue dimensioni interiori. È innegabile la ricchezza interna, tematica, espressiva e d’ispirazione di questa forma di religiosità. Ma l’atteggiamento nei suoi confronti non può essere basato su approcci rudi, interpretazioni semplificate, accettazioni acritiche, spiantamenti violenti e immotivati. La religione in cui siamo stati educati alla fede merita da noi il massimo rispetto, per quello che ci ha dato e per quello che ancora può darci, ma soprattutto perché costituisce la saggezza del nostro popolo, la sua matrice culturale
di Teresa Maria Rauzino